Eppure esiste un piccolo nucleo di cittadini occidentali che sta sperimentando una conoscenza più diretta e non virtuale di aree geografiche apparentemente meno interessanti. Come spiega egregiamente l’antropologo Annibale Salsa “La riattivazione delle linee ferroviarie turistiche, di percorsi trekking a piedi o somaggiati, di itinerari storici a tappe come la Via Francigena o altri grandi sentieri, trovano un seguito di estimatori ancora troppo esiguo proprio perché il camminare lento non rappresenta un indicatore simbolico di prestigio sociale. Esso rimanda inconsciamente alla categoria dell’homeless, del globe trotter, del saccopelista, rifiutati dall’immaginario popolare italiano. Ci troviamo di fronte a un tipo di tassonomia antropologica che ricorda la rivalità fra contadini e pastori nelle società arcaiche, anche se ancora presente nelle società rurali tradizionali. Una contrapposizione reale e simbolica fra residenziali (contadini) e transumanti (pastori) ovvero tra portatori, rispettivamente, di valori stabili, domestici, affidabili, assoluti da una parte e disvalori mutevoli, inaffidabili, relativi dall’altra”.
Che cosa significa camminare per questi transumanti postmoderni?
Camminare significa interessarsi alle cose del mondo, alimentando inquietudine e stupore. Afferma il sociologo David Le Breton “Sottomettendo alla nudità del corpo, la marcia sollecita nell’uomo il senso del sacro. La meraviglia del mondo appare al camminatore. La tradizione orientale parla di darshana, un dono di presenza che trasforma coloro che se ne sentono testimoni”.
Camminare serve a allenare la mente a rimanere lucida, a rivelare i desideri inespressi. Camminando si diventa sempre più presenti a se stessi e questa lucidità viene alimentata da tutto quello che accade in cammino.
Inoltre in marcia si è sottoposti a ogni tipo di sofferenza, ma si provano anche tutte le gioie, perché camminare significa esercitare empatia nell’incontro con l’altro. Camminando con sconosciuti si condividono momenti di gioia e di sconforto. Non ci sono interessi in gioco che non siano quelli di condivisione di un’umanità ritrovata grazie al radicamento alla realtà che il viaggio produce.
Non bisogna tralasciare un aspetto noto ma non certo meno importante: camminare ha effetti positivi su alcuni parametri vitali quali la pressione arteriosa, la glicemia, il peso corporeo, il tono muscolare ecc. Inoltre camminare rallenta la demenza senile perché, insieme al corpo, la mente partecipa all’impegno fisico.
Camminare significa acquistare libertà, che non vuol dire solo andare “a zonzo”, senza una meta precisa. Infatti, camminando a lungo, scrive Le Breton “si entra in una vita sconosciuta dove regna l’anonimato, dove non si è nessuno, dove non si hanno responsabilità se non verso se stessi e la natura”.
Infine camminando si viene catapultati in un regno sconosciuto dove il tempo è sovrano perché ci si sposta in quella dimensione e non più in quella dello spazio. Per dirla come lo scrittore R. L. Stevenson “Una vita passata a non guardare più le ore è l’eternità. Non si potrebbe concepire, a meno di averla provata, la lunghezza di un giorno d’estate che si misuri soltanto con la fame, e che finisca soltanto quando si ha sonno”.
Chi è allora il camminatore?
Il camminatore è un resistente, un uomo del piacere (opposto all’uomo urbano), l’uomo delle conversazioni (e non quello della comunicazione), l’uomo del silenzio ( e non quello del rumore), l’uomo della lentezza (e non quello della fretta), l’uomo della pratica biocentrica (e non quello della teoria eucentrica).
Scrive ancora Le Breton “Camminare nel contesto della realtà contemporanea parrebbe una forma di nostalgia oppure di resistenza. I camminatori sono persone singolari che accettano, per qualche ora o qualche giorno, di uscire dall’automobile per avventurarsi nella nudità del mondo”.
Pertanto si può affermare che con motivazioni diverse, ma con stati d’animo per certi versi affini, il camminatore tardo-moderno si mette in gioco con una sfida “contro culturale” nei confronti della cultura egemone, tendenzialmente orientata all’accelerazione delle esperienze quotidiane.
L’andare a piedi, secondo la filosofia dell’osservazione partecipante, rappresenta quindi un nuovo “rito di passaggio” postmoderno, che permette di prendere la giusta distanza critica rispetto all’ebbrezza della velocità e del consumo vistoso.
Noi, autori di questo articolo, compiamo lunghi viaggi a piedi da oltre 15 anni, servendoci di tratturi, sentieri e mulattiere antichi. Durante il cammino, per ore parliamo, guardiamo il paesaggio, siamo silenziosi, pensiamo, ci fermiamo a ascoltare storie, fatichiamo, sbuffiamo, spesso ci arrampichiamo, scivoliamo, raramente ci issiamo, ci affanniamo.
E poi eccoci finalmente a destinazione, in cima all'ultima salita, ci leviamo il cappello affinché il vento ci schiarisca le idee, silenziosi di fronte alla straziante, meravigliosa bellezza del creato; allora cadiamo in ginocchio, pieni di gioia, morti di stanchezza, con la consapevolezza che il mondo pazzo e caotico da cui ci siamo allontanati è talmente privo di speranze, che non sappiamo se riusciremo a sopportarlo ancora un anno o di più o di meno, sappiamo solo che quel modello di vita è stato ed è cessato, e noi lo lasciamo indietro. |